Siedono in cerchio, sporchi e ubriachi di benzina, ascoltano in silenzio la notizia della prossima apertura del centro: «Il vostro nuovo inizio è vicino, ma dovete comportarvi bene». Uno alza la mano, vuole dire la sua: «Mi aspetto che quando andremo a Ndugu Mdogo vivremo come fratelli, non litigheremo, ci difenderemo a vicenda», tutti fanno sì con la testa, uno aggiunge che è stato a Kivuli qualche giorno fa, ha visto com’è il centro, ordinato, pulito, ribadisce: «Dobbiamo comportarci bene».
Avranno in media dodici anni. Sono in diciassette.
Vivono in un posto che si chiama Mtindwa, alla periferia di Nairobi. Ci passa di mezzo la ferrovia, e il treno due volte al giorno. A pochi passi dal campo dove abbiamo improvvisato una partita di pallone c’è un mercato e cumuli di immondizia, un canale di scolo dove il pallone cade in continuazione, dei fuochi accesi che bruciano plastica.
Non sono solo in diciassette a formare questa banda di strada: poco distante da noi siede un gruppo diverso, almeno altre trentacinque persone, tutte al di sopra dei vent’anni, tutte altrettanto ubriache di benzina, movimenti lenti, vestiti strappati. Abbiamo giocato tutti assieme, combattendo come se stessimo disputando la finale dei mondiali, 5 a 4 il risultato finale, ora ci rilassiamo e chiacchieriamo in attesa di mangiare qualcosa. In tutto siamo dunque almeno cinquanta persone, ma se ne aggiungono altre ora che si parla di cibo. Mancano, stranamente, le ragazze; mi dicono che di giorno non si fanno vedere, si nascondono, escono allo scoperto solo di notte.
Non è la prima volta che vengo da queste parti. Riconosco alcuni dei loro volti, erano qui già due anni fa.
Ogni anno lavoriamo con circa centocinquanta bambini che provengono da posti come Mtindwa. Ogni anno vai in strada e ne trovi di nuovi. A volte sembra di voler raccogliere con le proprie mani l’acqua del mare. Non basta mai quello che facciamo. Servirebbero cambiamenti più radicali.
Quest’anno abbiamo iniziato un nuovo programma cofinanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. L’intervento si sviluppa lungo sei campi d’azione:
1) I bambini e le bambine di strada: vogliamo aiutarne di più, portarli nei nostri centri di prima accoglienza e poi da lì verso opportunità migliori. Apriremo un nuovo centro solo per le bimbe, lo abbiamo battezzato “Dada Mdogo”, che significa “Piccola Sorella” in swahili, un nome che è nato spontaneo.
2) Le famiglie: sempre più sentiamo la necessità di raggiungere i nuclei familiari e da lì partire con il cambiamento. Se agisci sulla famiglia forse riesci ad intervenire sulle cause che hanno portato il bambino in strada, e farai in modo che i fratelli e le sorelle più piccoli non vadano a rinfoltire le fila degli street children.
3) Gli adolescenti: per loro c’è bisogno di un intervento diverso, pensiamo a corsi professionalizzanti, borse di studio per farli tornare a scuola e riprendere in mano la loro vita.
4) Le scuole primarie: ne abbiamo selezionate quattro, si trovano nei quartieri molto poveri di Kawangware e Kibera, hanno una popolazione di almeno mille studenti per scuola, con loro vogliamo parlare di diritti e doveri, spiegargli il valore che hanno in quanto bambini, spingerli ad essere i primi difensori di questa infanzia rubata.
5) La comunità: vogliamo raggiungere la gente, le istituzioni, le altre organizzazioni che lavorano qui a Nairobi, tutti i diversi strati della società, per promuovere la tutela dei diritti dei bambini attraverso l’organizzazione di eventi pubblici e occasioni di confronto.
6) La rete sociale: in quanto controparte locale di tutti i nostri progetti, Koinonia Community è impegnata nella creazione di reti volte alla promozione e protezione dei diritti dell’infanzia a rischio. Fare rete è un aspetto da potenziare, unire le forze per un obiettivo comune è l’unica strada.
Abbiamo iniziato a lavorare a questo nuovo progetto lo scorso mese di febbraio. È un programma triennale, che rafforzerà il nostro intervento e ci farà crescere.
Dopo essere stata in strada sono rientrata a Kivuli e mi sono seduta in compagnia dei ragazzi che in questo momento vivono nel centro. È domenica pomeriggio, la televisione è accesa, sintonizzata su un video musicale a tutto volume, i bimbi danzano e cantano assieme, scherzano, si spingono e poi ridono.
Io siedo in disparte e ho ancora negli occhi l’immagine dei diciassette che si ripromettono di comportarsi bene per guadagnarsi una nuova vita. Fuori inizia a far buio, mentre i miei quarantacinque amici di Kivuli ancora si divertono ad imitare i rapper americani, io penso a quei diciassette, ma anche agli altri trentacinque, e poi a tutte le altre centinaia di migliaia di bambini che ancora vivono in strada, che si preparano a passare l’ennesima notte allo scoperto, accendendo fuochi di fortuna per difendersi dal freddo, stordendosi con le droghe più diverse per combattere la fame.
Poi Kamanje viene a tirarmi per un braccio, mi porta al centro della pista, tutti mi circondano e ridono muovendosi magistralmente al ritmo dell’ultima hit del momento. È bello avere sotto gli occhi la prova concreta del cambiamento in atto: queste sono le gocce che tutti assieme abbiamo tirato fuori dal mare, oggi studiano, ridono, si sentono voluti bene, sognano.
Penso sia nostro dovere fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità e anche di più per fare in modo che i bimbi in strada siano sempre di meno. Servono più Kamanje sorridenti.
I diritti dei bambini vanno rispettati e noi dobbiamo fare in modo che questo messaggio raggiunga più orecchie possibile. Quest’anno ci aiuta anche il Ministero italiano. Noi non dobbiamo fermarci mai, ma provare piuttosto a fare sempre di più.
Chiara Avezzano
dal 2003 volontaria e coordinatrice dei campi di incontro, oggi vive a Nairobi per coordinare un progetto di cooperazione internazionale con il MAECI.